Se mettiamo nella stessa frase le parole “pugilato” e “Parkinson” l’associazione mentale è immediata e spietata. Il ricordo vola indietro nel tempo e scavalla addirittura il millennio. Siamo ad Atlanta, è il 1996, e gli occhi di tutto il mondo sono incollati sull’uomo che ha reso la boxe leggenda, Sua Maestà Muhammad Ali. L’ex campione dei Pesi Massimi – che ai Giochi del 1960 fu splendido oro nelle altrettanto splendide Olimpiadi romane – chiude in un certo senso il suo capitolo a cinque cerchi con l’onorificenza più alta per un olimpionico: a lui, ultimo tedoforo, tocca l’accensione del braciere che darà il via agli ultimi Giochi del 1900. Nel cuore del Centennial Olympic Stadium, il campione delle sfide epiche contro Frazier e Foreman si mostra senza schermi per quello che è in quel momento: un signore di 54 anni che sta lottando contro quella brutta malattia che lo debiliterà sempre di più, fino alla sua morte, arrivata nel 2016. Ma proprio quando Ali se ne va, in un mondo che piange sgomento per lui, nella sua America sta nascendo qualcosa che quell’associazione mentale tra pugilato e Parkinson lo rivoluzionerà. In positivo. Qualcosa che il dottor Maurizio Bertoni scoprirà per caso. «Mi trovavo per lavoro a New York e, siccome avevo voglia di fare un po’ di allenamento, degli amici mi hanno portato a Brooklyn, nella Gleason’s Gym, questa storica palestra che ha ospitato Rocky Marciano, Muhammad Ali e Mike Tyson fra gli altri e nella quale Hilary Swank si allenò per interpretare “Million dollar baby” – racconta – e mentre andavo via sentii il personale della palestra che parlava di un allenamento previsto per il giorno dopo riservato ai malati di Parkinson. Incuriosito tornai e quello che vidi mi commosse». Agli occhi di Bertoni si presentò una scena che di lì a poco sarebbe diventata, per lui, quotidianità: una ventina di malati di Parkinson si allenavano intorno a un ring seguendo le indicazioni di un istruttore. «Mi informai: si trattava di una nuova tecnica sviluppata da una ricercatrice italiana, la neurologa Roberta Marongiu. L’idea mi è piaciuta e l’ho portata in Italia». Nasce così il viaggio dell’associazione “Un gancio al Parkinson”, di cui Maurizio Bertoni è presidente.
LA BASE
Tutto comincia sul finire del 2018, quando al Training Lab di Firenze l’associazione – in rete con le Università americane dell’Ohio, di Duke e di Pittsburgh – lancia il progetto per cavalcare un’idea innovativa e rivoluzionaria: contrastare i danni della malattia degenerativa (su tutti l’irrigidimento progressivo dei muscoli, con le crescenti difficoltà di movimento e di parola) attraverso i metodi di allenamento della boxe, dai colpi al sacco ai salti con la corda. Il primo ciclo trimestrale di cure, con due sedute di training alla settimana per 15 pazienti (ora sono 65), dà risultati sorprendenti: i dati sui test di rito effettuati prima e dopo la terapia evidenziano miglioramenti diffusi per la totalità dei pazienti. Da un punto di vista motorio, certo. Ma non solo. Perché il beneficio maggiore – e forse quello più importante – arriva sul versante psicologico. «Abbiamo in cura un signore di 85 anni, la cui figlia era disperata: il papà si stava lasciando andare, non parlava più, non voleva uscire. Adesso che ha scoperto la boxe non perde una lezione – racconta ancora Bertoni – È solo uno dei tanti casi. La verità è che finora per i malati di Parkinson si ricorreva alla ginnastica dolce o alla danza. E molti di loro ci hanno raccontato che, alla lunga, si annoiavano. Cosa che con il pugilato non avviene».
CONFINI DA ESPLORARE
La domanda più logica è: perché la boxe e non un’altra disciplina? Ci risponde ancora il dottore. «L’attività motoria è fondamentale, e questo si sa, ma è meglio se è di una certa intensità. Gli allenamenti del pugilato lo sono molto e stimolano equilibrio, velocità, reattività occhio-mano. In più stimolano il versante cognitivo. Basti pensare all’allenamento con l’istruttore con il paracolpi che chiede, ad esempio, “fammi una sequenza montante destro, gancio sinistro e jab destro”. Mantiene viva l’attenzione, quindi è un doppio stimolo». Una forma di allenamento “totale” che presto potrebbe oltrepassare i confini dell’attuale sperimentazione. «Ci stiamo chiedendo – conclude Bertoni – se queste metodologie non possano essere utili anche per pazienti con demenza senile o con l’Alzheimer. È un campo che presto inizieremo a esplorare».