Nei 65 anni vissuti finora Giacomo Poretti è stato tante cose: operaio in fabbrica, addetto alle pulizie in ospedale e poi infermiere, attore di teatro e cinema con la consacrazione insieme ai due compagni di viaggio Aldo e Giovanni che compongono il longevo trio comico. E ora si misura con la scrittura.
Nelle librerie è appena arrivato il romanzo, Turno di notte (Mondadori, 156 pagine, 17 euro), nel quale Giacomo ripercorre gli undici anni vissuti in corsia fino al 1985, quando cambiò decisamente scenario, salendo sul palcoscenico. Saetta, l’infermiere protagonista del libro, vive lo stravolgimento del tempo che in ospedale si trasforma, gli stati di emergenza, il complesso equilibrio della relazione con i pazienti e mostra la dignità necessaria davanti al dolore.
Che cosa le hanno lasciato quegli anni?
«Molti segni, ricordi e sensazioni uniche. Quell’esperienza così lunga ha accentuato la mia sensibilità, ha influito nel linguaggio e nella capacità di relazionarmi senza cedere all’indifferenza o al sentimento di amicizia con i ricoverati che è pericoloso. Ogni settimana rischieresti di perdere qualche amico. Ho imparato l’umiltà per curare il corpo di uno sconosciuto».
E la pandemia?
«Se fossimo davvero attenti capiremmo che ci sono tante cose da imparare da questa pandemia. Quando la vita pone dei limiti, come è successo durante il lockdown, è sicuramente fondamentale reinventarsi, tornare artigiani, trovare soluzioni creative. E non solo nel lavoro».
Come è uscito dal Covid-19?
«Ho contratto il virus insieme a mia moglie. La sintomatologia è durata circa dieci giorni fortunatamente senza ulteriori complicazioni e conseguenze. Non siamo finiti in ospedale. È stato un periodo denso di paure, eravamo ancora distanti dalla vaccinazione».
In che modo oggi si può affrontare l’incertezza determinata dalla pandemia?
«Noi colpiti dall’infezione abbiamo cercato di accompagnare il decorso con la fiducia nella medicina e l’ottimismo. Sconfiggere un virus è difficile. L’unica strada, per tutti, è mantenere la fede nella scienza e più generale l’apertura verso le sfide che si propongono».
Come per il vaccino?
«È l’unico strumento che impedisce gli sviluppi più gravi della malattia e la morte».
Che cosa hanno rappresentato i medici e gli infermieri in prima linea nell’emergenza?
«Definirli eroi equivale a imprigionarli dentro una etichetta buona solo per liquidarne l’esempio. Sono uomini e donne che hanno accettato la situazione in cui si sono trovati e hanno agito come le circostanze richiedevano. Ora non bisogna dimenticare l’impegno che hanno profuso. La loro concretezza, lo spirito volitivo e l’ottimismo che ha accompagnato la lotta per la nostra salute ci indicano la strada da percorrere».
Quanto è importante l’ironia, che ha sempre caratterizzato il trio per sdrammatizzare questa fase così difficile?
«Ho fatto tesoro dell’esperienza in ospedale, imparando poi a sorridere degli eventi e delle cose della vita. Oggi possiamo fare lo stesso per alleggerire gli effetti psicologici di quanto ci è accaduto con la pandemia».
È possibile essere ottimisti nonostante queste difficoltà?
«A contatto con i medici ho conosciuto la fatica che richiede la ricerca. L’ottimismo è un fattore irrinunciabile per il successo, seppure sia inutile negare la pericolosità della sfida posta da questo virus».
Parlando di coraggio. Lei nel 1985 si è licenziato per partire con la valigia dell’attore. Quanto ci aiuta a vivere meglio?
«Nella vita è fondamentale assumere dei rischi per assecondare le proprie passioni. L’inquietudine la curiosità e la positività mi hanno spinto a misurarmi con il cambiamento. Il coraggio ha premiato il desiderio di realizzare le aspirazioni teatrali».
© RIPRODUZIONE RISERVATA