Michelle, 18 anni, che dopo quello che sembra un banale malore in doccia, si ritrova ad attendere un cuore nuovo.
La piccola Laura, in dialisi sin dai primi giorni di vita, che si è dovuta sottoporre a un trapianto di rene. Sara e Gabriele, in attesa della primogenita Eva, che per un grave problema di salute dovrà essere operata subito dopo la nascita. Sono storie di malattie, anche rare, dure battaglie di pazienti giovanissimi e intere famiglie, nonché veri e propri – spesso complessi – percorsi di “rinascita” ad essere raccontati nella seconda parte della sesta stagione della docuserie Dottori in corsia – Ospedale pediatrico Bambino Gesù, con la partecipazione straordinaria di Eleonora Daniele, in onda il lunedì in seconda serata su Rai3 fino al 25 marzo. Ideata da Simona Ercolani e Coralla Ciccolini, prodotta da Stand By Me in collaborazione con Rai Fiction, la serie illustra, in ogni puntata, le vicende di due piccoli pazienti dell’ospedale Bambino Gesù di Roma. Eleonora Daniele è da sempre vicina al mondo della malattia: ha avuto un incidente da piccola, quando un pennarello le rimase incastrato nel naso, ed è cresciuta con il fratello maggiore affetto da autismo, alla cui storia ha dedicato un libro, “Quando ti guardo negli occhi. Storia di Luigi, mio fratello” (Mondadori).
Conosce bene la realtà di patologie e cure, come affronta la docuserie?
«Ricordo poco l’incidente che ho avuto, ero molto piccola, me lo ha raccontato mia madre. Ha contato molto di più il rapporto con mio fratello autistico, da quando sono stata piccola fino a quando è venuto a mancare, nel 2015. Quando incontro i parenti dei pazienti, mi identifico spesso con la loro situazione. Non è facile vivere in una famiglia con una persona disabile, però la malattia rafforza anche, fa crescere a livello pratico e umano. Conosco bene la situazione, quindi affronto la comunicazione di queste storie con sensibilità ed empatia».
Grande è l’aspetto emotivo della cura.
«L’ospedale Bambino Gesù è un’eccellenza, una realtà davvero speciale. Ci sono molte strutture pediatriche di grande valore in Italia, ma questo ospedale mette il bambino al centro. Si curano anche patologie rare, è un centro in cui puoi informarti e trovare realmente aiuto».
Ecco, le patologie rare sono molto presenti nella docuserie. L’intento è fare anche cultura della malattia?
«È fondamentale far sapere alla gente che ci sono medici ai quali rivolgersi. Tutti i casi trattati nella serie sono importanti, difficili. Penso a Karim, ad esempio, il bambino nato con il cuore al contrario, spostato sulla destra, e il fegato a sinistra. È davvero un caso complesso. E i medici sono stati bravissimi ad affrontarlo e a supportare la famiglia».
Tra i temi, la sindrome di Odette, con la storia di Giulia che, per anni, ha dovuto vivere con una tracheostomia che le consentiva di respirare mentre dormiva.
«Le malattie rare sono tantissime. In fondo, anche dell’autismo ancora oggi non si conoscono le cause. Il Bambino Gesù ha una rete incredibile di medici. Le famiglie vengono da tutta Italia con i loro piccoli malati perché qui possono ottenere un diagnosi ben fatta. E sappiamo tutti che è ciò che può fare davvero la differenza in termini di vita».
Come si raccontano le dure prove di questi bambini e dei loro genitori?
«È molto difficile. Affrontano davvero difficoltà impensabili. Quando mi confronto con queste vicende, mi dico spesso che non so se io riuscirei ad avere la medesima forza. E ciò, nonostante abbia affrontato la disabilità in famiglia: quella di mio fratello era mentale ma inevitabilmente, per una serie di concatenazioni, ogni disabilità della mente diventa anche fisica. Siamo davvero davanti a pazienti giovanissimi e, in generale, di fronte a persone che hanno una forza incredibile».
Da madre di una bimba di tre anni, queste storie sollecitano ancora più emozioni?
«C’è una sensibilità maggiore sicuramente. Il pensiero va a casa ogni volta che si affrontano queste storie. È inevitabile. Da quando è nata mia figlia Carlotta, ho sviluppato una sensibilità particolare, direi a pelle viva. Credo sia normale che accada. Si tratta anche di una questione antropologica, a tutela dell’infante. Davanti a storie come quelle che raccontiamo, si sente davvero la sofferenza».
E come si comunica tutto ciò?
«Nei dettagli ma senza abusare del dolore. Ogni storia è presentata in chiave positiva, dando speranza. Parlavo con uno degli autori e mi diceva che la grande difficoltà è proprio comunicare tutta questa forza, dei protagonisti e delle loro famiglie, farla emergere, farla sentire viva».
La malattia rafforza, diceva.
«Sì, ma può anche spezzare la famiglia, è difficile da affrontare nella quotidianità. In una delle puntate, si vede un medico che diventa amico di un bambino. È importante non abbandonare mai i parenti. I medici, di fatto, diventano parte del gruppo familiare».
Quanto è importante, oggi, una docuserie come questa?
«Tutti noi, bene o male, affrontiamo la malattia, che sia per un figlio, una madre, un fratello. Raccontare il rapporto con la sanità è fondamentale, come far conoscere il lavoro in un centro di eccellenza. È, lo ripeto, un modo per dare speranza».
State già ragionando sulla prossima edizione?
«Sì, si sta lavorando sui nuovi casi. La docuserie segue i pazienti in tutte le fasi della cura, dagli interventi alla quotidianità. È un percorso lungo».
Continuerà dunque sempre a dare voce al mondo della malattia?
«Sempre. È un impegno personale. Faccio la mia parte con la mia trasmissione, Storie italiane, e anche sempre con Telethon. E continuerò a farlo».
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