La scelta sembra essere obbligata: o si mangia poco o si rischia un invecchiamento faticoso.
L’indicazione principe per godere di una longevità in salute è, infatti, quella di ridurre l’apporto calorico. E, soprattutto, non mangiare tardi la sera. Seguendo le orme di Ippocrate che insegnava a fare del cibo la propria medicina, gli specialisti della Società italiana di medicina interna hanno elaborato un’ampia revisione della letteratura scientifica dedicata all’impatto dell’alimentazione sulla longevità.
Limitare l’apporto di calorie, secondo i risultati dell’indagine, fa entrare le cellule nella cosiddetta “modalità protezione”. Consentendo loro di resistere meglio agli insulti esterni. E, allo stesso tempo, le cellule messe a dieta soddisfano le proprie necessità attraverso una sorta di auto-cannibalismo (autofagia) delle componenti invecchiate e poco funzionali.
Questo significa che la restrizione calorica mette in moto una specie di pulizia interna. «Che – ricordano gli specialisti di Medicina interna – oltre a rimuovere componenti deteriorati e potenzialmente pericolosi, stimola anche la rigenerazione cellulare». Chi ha fatto luce tra i primi sul meccanismo dell’autofagia, con cui le cellule riciclano le sostanze di scarto facendo da “spazzino” al nostro organismo, è stato Yoshinori Ohsumi, biologo giapponese che nel 2016 per questa scoperta ha vinto il Premio Nobel. Con il passare dell’età, però, questo meccanismo lentamente perde di efficacia ed è così che nelle cellule si accumulano sempre più “rifiuti” portando al progressivo danno da invecchiamento.
Ecco perché l’autofagia legata alla restrizione calorica è un fattore fondamentale per la longevità. Importante è che il cambiamento alimentare venga calibrato per tagliare le calorie senza causare malnutrizione. Significa che l’apporto vitaminico, proteico, minerale e di acqua dev’essere mantenuto a livelli tali da soddisfare i fabbisogni dell’organismo. Quindi, un adulto con un fabbisogno di 2 mila calorie al giorno dovrebbe assumere con la dieta tra 1.200 e 1.600 calorie. «Le evidenze di questo stretto rapporto tra riduzione delle calorie ci arrivano, per esempio – spiega Giorgio Sesti, presidente della Società italiana di medicina interna – dallo studio “Calerie” pubblicato su Nature Aging. Sponsorizzato dai National Institutes of Health degli Stati Uniti, il trial ha testato gli effetti di due anni di restrizione calorica sul metabolismo in più di 200 adulti sani e non obesi. Risultato: il cambiamento del menu del 25% rallenta i processi di metilazione del Dna, legati a tanti processi di invecchiamento, già dopo appena ventiquattro mesi. È ovvio che qualsiasi decisione deve essere presa con il medico curante».