In poco più di un anno abbiamo visto l’irruzione del Covid-19, la drammatica crescita dei malati e dei decessi, l’individuazione delle cure, il lockdown, la realizzazione di un vaccino e, ora, le varianti del virus. C’è lo spettro del dover ricominciare quasi tutto da capo. Nei laboratori di microbiologia della Louisiana State University Health a Shreveport sono state, infatti, individuate sette varianti. Tutte si rivelano in una specifica area genetica del virus. «All’inizio di dicembre scorso, ha iniziato a circolare un virus che presentava una mutazione in una posizione identificata come 677. Ci siamo subito resi conto che c’era qualcosa in ballo. Ma niente panico, variante non è sinonimo di maggiore letalità» commenta Jeremy Kamil, professore di Microbiologia e Ìmmunologia alla Louisiana State University guida dello studio appena pubblicato. Ad ogni variante il team dei ricercatori ha dato il nome di un uccello: Robin 1 (pettirosso), Robin 2, Bluebird (pettirosso azzurro), Yellowhammer (zigolo giallo), Mockingbird (tordo), Pelican (pellicano) e Quail (quaglia).
Le mutazioni potrebbero rendere le varianti più contagiose?
«Stiamo certamente assistendo una contagiosità sempre più veloce. Stiamo studiando anche questo. I nostri sospetti sono alimentati dal fatto che il cambiamento compaia in un gene che influenza il modo in cui il virus entra nelle cellule umane. Negli Stati Uniti abbiamo rilevato sette varianti di coronavirus, tutte coinvolgevano la proteina Spike».
Può essere questa proteina a decidere l’aggressività del virus?
«È la proteina utilizzata dal virus come un arpione per entrare nelle nostre cellule». Il vaccino ostacola la diffusione? Anche in caso di varianti? «Il vaccino funziona, con qualunque variante. Forse il virus mutato può ugualmente entrare nell’organismo ma se sei vaccinato si elimina il rischio di ammalarsi gravemente e di morire».
La protezione agisce anche su quelle varianti che oggi si credono più aggressive come la brasiliana o la sudafricana?
«Il virus può anche nascondersi mettendo occhiali neri, baffi finti e cappello, ma il vaccino, come la polizia, lo riconosce e lo blocca. Limitando al massimo i danni per l’organismo».
Per questo si deve far presto a vaccinare?
«Certo, si deve offrire la protezione in modo di essere pronti a respingere un qualsiasi nuovo possibile attacco. È la stessa strategia che adottiamo ogni anno contro l’influenza».
Quando avete cominciato a individuare le mutazioni?
«La variante è stata rilevata per la prima volta il 23 ottobre, ma tra il 1 dicembre 2020 e il 19 gennaio 2021 ha cominciato a essere presente con percentuali fino al 27,8% di tutti i genomi sequenziati in Louisiana e New Mexico».
Vi siete preoccupati?
«Era prevedibile. La scoperta è importante, ovviamente, perché l’unico modo per arginare il virus è capire come, se e quanto cambia per adattarsi».
Quindi voi credete che ce ne siano altre di mutazioni?
«Ce ne sono altre, è ovvio. Ognuno di noi ha cugini e poi cugini dei cugini, dei cugini…».
Parliamo, dunque, di virus molto simili?
«La maggior parte delle volte i cambiamenti che si vedono sono irrilevanti. Le mutazioni sono prevedibili e non dovrebbero essere motivo di preoccupazione a meno che non si sia riusciti ad ostacolare la diffusione del virus».
In che modo, in questo caso, si può manifestare l’infezione?
«Si può presentare come una normale influenza con tosse e febbre ma non attacca in modo letale l’apparato respiratorio perché, comunque, siamo protetti. Ripeto, non è necessariamente vero che le varianti equivalgono a una maggiore trasmissione».
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