Un doloretto che mi accompagna, magari con simpatia non ce l’ho: devo ammetterlo, non me ne vergogno – per carità – anche per non sfidare la sorte. Conservo, però, il ricordo di due momenti della mia vita che non riesco ad arginare nel vezzeggiativo, neanche quando sono di buonumore. Da attore m’è spesso capitato di interpretare il ruolo di duri e di fare il cattivo. Trame anche spietate, ma non l’orrore che ho provato tanti anni fa in una circostanza che non dimentico. Ero un ragazzino e giocavo a calcio (a pallone, via): qualche osso me lo sono rotto, ma una volta la botta fu al naso. Setto nasale da operare: erano gli anni Settanta e c’era un grande specialista che andava per la maggiore. Un mio compagno di giochi e di squadra aveva fatto l’intervento poche settimane prima. «’Na passeggiata di salute: interventino e torni a respirare e a giocare a pieni polmoni. Anestesia e via». Ero fiducioso, quindi. Non sapevo che stavo per interpretare – da vittima – un horror-splatter fatto di martellate e limature; di un’anestesia con l’etere solo accennata che nulla faceva cadere nel torpore e tutto lasciava nella memoria. Suoni (sinistri), odori (forti) e dolori – appunto – indimenticabili prima, durante e dopo l’operazione (la tamponatura, anche quella tolta “a crudo”). Sono passati quasi cinquantanni da quell’intervento al setto nasale e la mia storia di “paziente” è un tracciato senza grandi scosse. Per fiction mi vedrete prima di Natale nella serie di Sky “A casa tutti bene” di Gabriele Muccino alle prese con qualche guaio: non posso spoilerare. Nella vita, invece, c’è un altro passaggio – meno cruento, ma non meno indimenticabile – nel quale ho capito che era meglio trattare bene carrozzeria e motore della macchina che è il nostro corpo. Qualche anno fa ero in vacanza in Sardegna, senza un vero perché, un dolore lancinante, invalidante, totalizzante alla schiena. Non un colpo della strega, di più. Nessun Voltaren riuscì a smuovermi o liberarmi da un blocco totale, non annunciato da nulla. Per rendere l’idea: dolore così forte e immobilizzante che sono stato riportato e impacchettato sul primo aereo disponibile sulla sedia a rotelle. L’imbarazzo allo scalo: primo a salire sul velivolo, l’ultimo a scendere. Dieci minuti (no, non scherzo, 10’ di orologio) per salire sul taxi che mi portava allo scalo. Era solo un mal di schiena, mai più provato così forte e chiaro. Sono un attore e da quel che capita a me e intorno a me prendo spunti, ispirazione: ho capito come ci si sente quando si è resi invalidi e quanto grati si debba essere a chi – con pazienza – si prende cura di noi. Dopo quel giorno c’è un osteopata che mi aiuta nella manutenzione: abbiamo una missione in comune, quella di non trasformare la mia vita ordinaria in una scena da film.